«Va bene calpestare le sementi, ma spezzare le foglie della pianta che preferisco…! Una rosa molto più bella della muscosa, dell’ispida, della pomponiana, della damascena e dell’eglantina della regina Isabella! (Alla zia) vieni, vieni a vede.
[…]
È una rosa che non ho mai visto, una sorpresa! la rosa reclinata con i boccioli all’ingiù, l’inerme senza spine – senza spine, pensa che meraviglia – la mirtifolia che viene dal Belgio e la sulfurata che brilla al buio sono fiori stupendi e incredibili, ma questa li supera tutti tanto è rara. I botanici la chiamano “Rosa Mutabile”, che significa mutevole, che cambia … In questo libro c’è la descrizione e l’immagine, guarda! (Apre il libro) Al mattino è rossa, la sera diventa bianca e di notte si sfoglia.»
Sono tante le protagoniste di questo breve passaggio in cui lo zio di Rosita mostra tutta la sua sapienza e il suo amore nei confronti delle rose tuttavia solo una di esse sembra attirare la sua attenzione: la rosa mutabile.
Chiamata comunemente rosa turca, per la sua provenienza, questa specie di rosa inizia a fare le sue prime comparse nei giardini europei attorno al XIX secolo quando il botanico ginevrino Henri Corréon riesce a determinarne la variante rispetto alla comune rosa tea.
A dire la verità questa mia affermazione non è completamente corretta, o meglio, diciamo che la successione degli eventi che hanno portato questo fiore a essere universalmente riconosciuto come rosa mutabile è più articolata di così.
Questo accade perché, in tempi antichi, i botanici e i vivaisti – i quali hanno accesso a una quantità di informazioni piuttosto limitate rispetto ai tempi moderni – devono osservare e studiare poco alla volta i nuovi esemplari prima di assegnare loro un nome che spesso richiama proprio le caratteristiche palesatesi durante il periodo di osservazione. In questi casi, la soluzione adottata è quella di assegnare alla rosa il nome del paese di provenienza in attesa di una nominazione più precisa.
Ecco dunque che la rosa turca, proveniente dall’Asia e spesso denominata rosa chinensis mutabilis, fa la sua prima apparizione in Italia nel XVIII secolo quando il Principe Borromeo decide di coltivare questi begli esemplari sconosciuti sull’Isola Bella al Lago Maggiore.
Restando ancora immersi per qualche riga in una magica atmosfera Ottocentesca, credo sia d’obbligo parlare di colei che, ancora oggi, viene ricordata come la Signora dei fiori: l’Imperatrice di Francia Marie-Josèphe-Rose Tascher de La Pagerie nonché prima consorte di Napoleone Bonaparte.
Da sempre appassionata di fiori, a seguito dell’acquisizione del castello di Malmaison da parte del marito nel 1799, l’Imperatrice dà ordine ai suoi vivaisti, botanici e giardinieri di realizzare nella tenuta del castello un giardino all’inglese. Tra i botanici al servizio della famiglia imperiale figura un certo André Dupont il quale decide di consigliare alla nobile di creare un giardino dedicato interamente alle rose; l’idea stuzzica la curiosità di Joséphine che da il via libera a Dupont iniziando, per altro, ad appassionarsi a questi fiori specialmente nelle loro varianti più rare.
Intanto, in qualche angolo sconosciuto del mondo, Napoleone sta combattendo per la Francia e, venuto a conoscenza di questa nuova passione dell’Imperatrice, decide di farle recapitare numerose specie di rose provenienti dai paesi in cui si trova via a via a dover combattere contribuendo così a formare una collezione unica al mondo.
Tra il 1817 e il 1820 i giardini di rose amorevolmente accuditi dai giardinieri imperiali sono all’incirca 200; in quegli stessi anni viene anche edito un primo libro illustrato con 168 tavole di tutte le rose ivi presenti: Les Roses.
Nel corso della permanenza a Malmaison, Dupont inizia a produrre ibridi e a fare sperimentazioni che lo rendono il creatore di 25 nuove varietà di rosa che raggiungono i 1000 nei trent’anni dopo la sua scomparsa grazie al lavoro portato avanti dai propri collaboratori.
Sfortunatamente nessuna di queste meraviglie della natura è sopravvissuta al tempo, spazzata via nel 1870 in una delle tante battaglie che si sono combattute durante la guerra guerra franco-prussiana.
«Una rosa molto più bella della muscosa, dell’ispida, della pomponiana, della damascena e dell’eglantina della regina Isabella!»
Ma quante sono queste rose!
E com’è possibile che un uomo dell’epoca possa conoscerle tutte, anche quelle non particolarmente diffuse nella Penisola Iberica?
No, lo zio di Rosita non possiede alcuna arte magica né tantomeno ne è provvisto l’autore del dramma, Federico Garcìa Lorca.
Dunque: come può essere possibile una simile conoscenza?
La risposta è presto data.
«In questo libro c’è la descrizione e l’immagine, guarda!»
Esattamente! un libro, tanti libri che raccolgono al loro interno tutte le informazioni necessarie per chi volesse conoscere non solo le rose ma tanti altri fiori.
Pensate che questi volumi sono delle vere e proprie enciclopedie – chiamate Flower Book – di manifattura pregiata, eleganti e arricchite da incisioni e litografie.
Siamo in pieno Ottocento e tutti parlano di una nuova moda che impazza ovunque in Occidente e, in particolare, nell’Inghilterra vittoriana: donne di tutte le età e le estrazioni sociali iniziano ad abbellire i propri capi di abbigliamento con colorati fiori e gli stessi appaiono su passamanerie e copertine di libri di ogni genere.
È nata la florigrafia o il linguaggio dei fiori.
Come molto spesso accade, dietro a ogni nuova moda si nasconde un artefice e, in questo caso, mi riferisco a Mary Wortley Montagu, moglie dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli la quale, durante un soggiorno in Turchia tra il 1716 e il 1718, nota con con curiosità l’importanza che questo popolo assegna ai fiori, segni allegorici di profondi significati politico-culturali.
– È lo zio che declama –
«Al mattino quando s’apre
è rossa come il sangue:
la rugiada non la tocca perché ha paura di scottarsi.»
La rosa è piena di forza, vitale, passionale, focosa e brama la vita.
Allo stesso modo, Rosita è giovane e piena di speranze per l’avvenire.
Crede nei sogni e si affida alle promesse del cugino amato.
«A mezzogiorno, in pieno fiore
è dura come il corallo:
il sole s’affaccia ai vetri
per vederla brillare.»
Poi matura e incontra la vita che la rende più forte e inizia a comprendere cosa significhi vivere.
Così Rosita impara l’attesa, impara la sopportazione del dolore e si prepara all’avvenire.
Pur avendo consapevolezza della propria condizione non riesce a smettere di sognare.
«Quando i passeri sul ramo iniziano a cantare
e sviene la sera
nelle viole del mare
diventa bianca diventa
una guancia di sale.
E quando la notte intona
un blando corno metallico
e le stelle appaiono
e scompaiono i venti
ai confini del buio
comincia a sfogliare.»
Infine avvizzisce e si spegne lasciandosi alle spalle solo il silenzio della morte e della vecchiaia che nulla può di fronte all’inplacabile trascorrere del Tempo che ci restituisce una Rosita bianca e ormai priva di qualsiasi desiderio – questa poesia viene ripetuta più volte nel dramma e l’ultima a declamarla è la stessa Rosita.
Prima di salutarvi, ancora un piccolo aneddoto.
Cercando informazioni in merito al testo, sono inevitabilmente incappata nella biografia del poeta in lingua spagnola e lì ho scoperto che Donna rosita nubile o il linguaggio dei fiori è stata l’ultima opera dell’autore rappresentata in vita dalla compagnia teatrale di Margherita Xirgu – interprete di Rosita.
Nel 1937, la stessa Xirgu porta il dramma lorchiano anche a Buenos Aires, luogo in cui decide di rimanere dopo lo scoppio della guerra civile spagnola iniziata che, tra i tanti morti, lascia sul terreno anche Federico Garcìa Lorca, fucilato il 19 agosto del 1936 dalle forze franchiste.
Noemi Veneziani