La rosa myrtifolia è colei che si porta dietro il retaggio del luogo in cui è nata e in cui il botanico, medico e bibliofilo Albert von Haller la scopre, rintanata nel suo arbusto durante una passeggiata sulle Alpi svizzere attorno alla metà del XVIII secolo.
Affascinato dall’unicità di questo esemplare egli decide di conferirle il nome di rosa myrtifolia poiché le sue piccole foglie ricordano quelle della pianta del mirto – arbusto sacro ad Afrodite, dea dell’Amore.
E come questa rosa porta con sé la propria storia, così accade anche per un’antica tradizione risalente al XIII-XIV secolo: la Festa di San Giorgio celebrata ogni 23 di aprile in Catalogna.
Durante questa giornata, i maschi di tutti i paesi sono invitati a donare rose alle signore in segno di amore e le stesse, in cambio, fanno dono agli uomini di un libro – quest’aggiunta, alquanto curiosa, viene solitamente datata all’inizio del XX secolo, momento storico di grande importanza per quanto riguarda la pubblicazione di testi di letteratura relativi all’argomento amoroso – come vedremo in seguito.
La leggenda di San Giorgio narra di un coraggioso cavaliere, il quale osa sfidare il grande drago per salvare la vita all’amata principessa.
Infatti, per mettere fine alla furia omicida del possente animale, il re di Catalogna è costretto a stringere con lui un patto secondo cui quest’ultimo avrebbe ricevuto regolarmente in dono una giovane fanciulla in cambio di pace.
Ma si sa, la legge è uguale per tutti, e la figlia del re non può essere esentata dal compiere il proprio dovere in quanto ‘vittima sacrificale’.
Il re è disperato e teme per la vita della fanciulla ma ecco arrivare l’intrepido cavaliere che, con la sua spada, trafigge il petto del mostro facendone sgorgare un rivolo di sangue da cui nasce una piccola rosa rossa che egli raccoglie e dona alla giovane in segno d’amore.
«È una rosa che non ho mai visto, una sorpresa! la rosa reclinata con i boccioli all’ingiù, l’inerme senza spine – senza spine, pensa che meraviglia – la mirtifolia che viene dal Belgio (…)»
L’inerme senza spine, così la definisce lo zio di Rosita parlando con la moglie.
La rosa del paradiso che, con i suoi petali bianchi, rappresenta la perfezione e l’innocenza della Vergine Maria (Rosa Mistica); la rosa senza spine che si contrappone alla rossa rosa terrena dotata di taglienti aculei a ricordare all’uomo il dolore per il peccato originale consumato da Adamo ed Eva.
Nella simbologia cristiana, la rosa bianca rappresenta la purezza, quella rossa la sofferenza.
Pensate che, secondo una vecchia leggenda medievale, le prime rose sarebbero sbocciate dai ceppi ardenti di un rogo che avrebbe dovuto mettere fine alla vita di una giovane fanciulla: dai legni arsi sarebbero sorte piccole roselline rosse mentre da quelli ancora da ardere avrebbero fatto la loro comparsa timide rose bianche.
Ora, dopo tutto quello che abbiamo detto in merito alla candida rosellina bianca, non vi sarà difficile comprenderne l’associazione con il puro abito nuziale, simbolo di castità e di rinascita.
Un’altro aspetto alquanto curioso legato alla rosa è nascosto in un’antica tradizione gallese che viene rispettata ancora oggi e secondo cui, durante la festività dedicata a tutte le madri del mondo, gli orfani sono obbligati a portare, appuntata all’occhiello, una piccola rosa bianca che, in quanto simbolo di silenzio e innocenza, viene largamente utilizzata anche come elemento decorativo sulle tombe degli infanti.
Restando sempre in ambito religioso, il cristianesimo non è stato, e non è tutt’oggi, l’unico Credo che prevede nel suo immaginario allegorico una rosa bianca; nella religione luterana, per esempio, questo fiore viene impiegato rigorosamente nella sua sfumatura candida e inserito in un elaborato stemma:
«Prima dev’esserci una croce: nera nel cuore, che ha il suo colore naturale, affinché io mi ricordi che la fede nel Crocifisso ci rende beati. Poiché il giusto vivrà per fede, per la fede nel Crocifisso. Ma il cuore deve trovarsi al centro di una rosa bianca, per indicare che la fede dà gioia, consolazione e pace; perciò la rosa dev’essere bianca e non rossa, perché il bianco è il colore degli spiriti e di tutti gli angeli. La rosa è in campo celeste, che sta per la gioia futura. Il campo è circondato da un anello d’oro, per indicare che tale beatitudine in cielo è eterna e che non ha fine e che è anche più eccellente di tutte le gioie e i beni, così come l’oro è il minerale più pregiato, nobile ed eccellente.»
Questo breve passaggio, mi permette di introdurre una disciplina che, ormai da qualche tempo, mi appassiona: l’araldica, meglio conosciuta come lo studio degli stemmi.
Credo che sia affascinante indagare – in piccola parte, non allarmatevi! – come questo fiore sia entrato a far parte di alcuni tra i più importanti stemmi di famiglie nobili, senza ovviamente dimenticare i numerosi ordini religiosi e le città che, nel corso dei secoli, hanno deciso di inserire questo fiore nei propri stemmi.
Prima di spiegarvi cosa si intende quando si parla di rosa araldica, vorrei rivolgervi una domanda: quale importante avvenimento storico vi ricorda la rosa utilizzata come simbolo distintivo di importanti casate nobiliari del XV secolo inglese?
Esatto, proprio la celeberrima Guerre delle due rose durante cui si sono affrontate la potente famiglia degli York, da una parte, e l’altrettanto influente famiglia dei Lancaster dall’altra.
Ciò detto manca ancora un piccolo dettaglio: credo che da questo quesito abbiate compreso che la rosa araldica è colei che viene rappresentata all’interno di stemmi e bandiere, ma come può essere resa visivamente?
In modo molto semplice, in realtà: solitamente viene riportando un bottone al centro che poi può essere circondato da cinque petali ripiegati alle estremità – rosa bottonata – e intervallati da piccole foglie – rosa punteggiata –, oppure, più di rado, si riproduce il fiore in maniera realistica con tanto di gambo e spine – in questo caso si parla di rosa fustata o gambuta.
In entrambi i casi, i colori più utilizzati, oltre al verde per il gambo e le foglie, sono il rosso, l’oro e l’argento.
Esempi emblematici dell’applicazione di queste poche e semplici regole sono la rosa degli York e la rosa dei Lancaster; bianca la prima con il bottone dorato e stilizzate foglioline verdi, rossa la seconda bottonata di bianco e punteggiata da foglie più frastagliate.
Come abbiamo accennato poco sopra, queste due famiglie – entrambe appartenenti al ramo dei plantageneti d’Inghilterra – si azzuffano per lungo tempo – dal 1455 al 1485 – nel tentativo di rubarsi la corona a vicenda.
Questa almeno è la situazione fino al 1485, quando Enrico Tudor conte di Richmond, dopo l’ultima battaglia contro il re in carica Riccardo III – il quale rimane ucciso in quell’occasione –, entra a Londra e dichiara definitivamente chiuse le ostilità in favore di un più lungo e prospero periodo di pace per il paese.
Lui, Enrico, erede della casata dei Lancaster, si fa incoronare re con il nome di Enrico VII e decide di prendere in moglie la figlia primogenita di Edoardo IV, Elisabetta di York.
Così facendo, York e Lancaster vengono indissolubilmente uniti e, per suggellare questo evento, viene creato un simbolo che rappresenta ancora oggi il Regno d’Inghilterra: la rosa Tudor.
Essa insieme al cardo scozzese e al trifoglio irlandese è uno dei simboli più importanti per il popolo anglosassone.
Pensate che, durante la battaglia di Minden (Prussia) del 1° agosto 1759, i membri del 51° reggimento dello Yorkshire raccolgono alcune roselline bianche dal campo di battaglia come tributo per tutti i compagni caduti e lo appuntano sui propri pastrani – questo gesto viene ricordato ancora oggi quando, ad ogni 1° di agosto, viene festeggiato lo Yorkshire Day.
Allo stesso modo, dal XIX secolo, la rosa rossa dei Lancaster viene utilizzata come simbolo di molte armate militari reali; durante la prima guerra mondiale, per esempio, una rosa rossa viene portata dalla 55esima divisione inglese del West Lancashire durante la campagna in Belgio – il loro motto recita «Loro vivono o muoiono, quelli che indossano la Rosa dei Lancaster».
Guerre, religioni, mode; la rosa è un fiore in grado di adattare il proprio significato allegorico a tanti ambiti della vita delle comunità umane. È un fiore che spesso ricorre nella letteratura – pensate al noto romanzo di Umberto Eco intitolato Il nome della rosa, il Ciclo della rosa dannunziano, la Candida Rosa del Paradiso dantesco o ancora la piccola e dolce rosellina de Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry – e, come vedremo nel prossimo appuntamento, essa appare spesso anche in altre forme artistiche come la musica o la pittura.
Tuttavia esiste ancora un unico ambito di cui non abbiamo esplicitamente trattato ma che è legato a tutti gli altri: il senso e l’importanza allegorica che la rosa assume come segno politico.
A questo punto è bene che prestiate molta attenzione a quello che sto per dirvi poiché sarà fondamentale quando, al termine di questo nostro viaggio, andremo a conoscere la figura di Federico Garcìa Lorca un po’ più da vicino.
Quando pensate alla rosa associata ai movimenti politici, la prima immagine che dovrebbe venirvi in mente è la rosa bianca, segno indelebile di un movimento di giovani studenti antinazisti spazzati via decapitati dalla furia del nuovo regime nel febbraio del 1943.
Forse meno immediata potrebbe essere l’associazione della rosa rossa ai partiti socialisti. Dopo l’Internazionale Socialista del 1951, una mano stringente in pugno una rossa rossa diventa il simbolo di una resistenza adottata da partiti socialisti, laburisti e socialdemocratici di molti paesi del mondo: Italia, Danimarca, Argentina, Brasile, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna, Svezia, Uruguay e tanti altri.
Perché quest’ultimo aspetto sarà fondamentale per comprendere l’importanza che ha assunto la rosa, in quanto simbolo di vita, nell’esistenza terrena dell’autore spagnolo?
Abbiate pazienza ancora qualche settimana e il mistero vi sarà svelato.
Intanto vi lascio con un’ultima curiosità relativa alla toponomastica legata alla rosa e vi dò appuntamento alla prossima puntata!
Sapete da dove deriva Rosà, il nome di una cittadina in provincia di Vicenza?
Ebbene, sappiate che, per tutto il territorio di questo comune veneto, crescono grandi quantità di rose che ricoprono e decorano campi e argini dal XV secolo dando il nome al luogo e al dialetto – roxato – che in questa zona si parla ormai da tempi antichi.
Noemi Veneziani