Anteprima non editata |
La riva del lago di Lecco era un via-vai di gente con i colletti dei cappotti alzati, sciarpe ancora indossate fino al mento e non ancora riposte in qualche armadio.
Ma, nonostante questo vento pungente, il lago era una tavola.
Quelle piccole barche a meno di un metro dalla riva, dondolavano con un dolcissimo movimento, quasi incantevole.
Guido Messina, docente presso l’università di Lecco, ed insegnante di storia antica, passeggiava sulla riva del lago, respirando i suoi profumi che gli sbattevano con insistente violenza sul viso.
L’odore di quell’acqua ferma e stagnante si mischiava in maniera nauseante con gli odori che provenivano dalle condutture dell’aria di un McDonald dalla parte opposta della strada.
Odiava mangiare in quei posti anche se, a volte, quel frullato salvalavita gli aveva rimesso in piedi la giornata.
Le lezioni erano finite da circa tre ore ma, come ogni marzo che si rispetti, la luce lasciava spazio al buio del tardo pomeriggio.
I lampioni lungo la strada che costeggiava il lago erano accesi ed illuminavano perfettamente il nero asfalto, fino ad arrivare a Piazza Mario Cermenati.
Intorno alla grande statua, situata proprio al centro della piazza, un gruppo di ragazzi con zaini in spalla, erano fermi a parlare tra di loro.
Alcuni bambini, scappati al controllo delle proprie mamme, correvano e riempivano l’aria con le loro grida di gioia.
Il suo appartamento era una piccola mansarda in via Salvatore Sassi, due traverse dopo il lungolago, facilmente e comodamente raggiungibile a piedi dopo la fine delle sue lezioni.
Raramente prendeva la macchina che restava quasi sempre ferma a riposare in un piccolo parcheggio a poche decine di metri da casa sua.
I suoi quarantacinque anni appena compiuti, venivano perfettamente nascosti da un aspetto giovanile, una folta chioma di capelli sempre ben curata, sempre perfettamente sbarbato.
Il suo metro e settantacinque di altezza gli regalavano un passo spedito e agile, mentre rincasava dopo una giornata di lavoro.
Raggiunto il portone al civico 45, infilò sicuro la chiave e girò con decisione.
Erano solo tre rampe di vecchie scale mai ristrutturate ma di ottima e resistente fattura.
Marmi mai completamente lavorati sotto ai piedi davano modo di non scivolare e di fissare con decisione ogni passo ben saldo per terra.
Una volta entrato in casa il suo viso si scaldò quasi immediatamente.
Le travi che rivestivano e coprivano il soffitto sopra di lui, rilasciavano un piacevole calore, accumulato con avidità durante tutta quella giornata di sole primaverile.
La mansarda era piccola ma accogliente.
La porta era in mezzo ad un piccolo disimpegno, con a lato un tavolino grigio dove solitamente appoggiava il suo mazzo di chiavi e il suo smartphone, nella speranza di dimenticarsi della sua esistenza.
Di fronte a lui il piccolo bagno, sulla sinistra una comoda camera da letto e, sulla destra, un salone con la sua cucina.
Appoggiata la sua borsa a tracolla ed il cappotto su di un attaccapanni, posò rumorosamente le chiavi insieme al suo telefono.
Si diresse subito in sala, prese il telecomando del televisore, e puntandolo verso l’apparecchio, lo accese.
Il lunedì, da qualche settimana a questa parte, era diventata una sera piuttosto sacra e religiosa.
La programmazione vedeva ormai da qualche tempo una consueta puntata del “Commissario Montalbano”.
E come di consueto, la sua cena, doveva essere piacevole e all’altezza del film.
Rapida, veloce e maledettamente gustosa.
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