Estratto #1 |
Capitolo 1
«Prendo questi».
Misi i fumetti sul bancone, il commesso ne verificò il prezzo con il lettore e me li riconsegnò.
«Fanno diciassette e settanta».
Pagai con una banconota da venti e dopo aver preso il resto, me ne andai.
Il mondo mi accolse con una raffica di vento fastidiosa.
Si sentivano già le prime avvisaglie della neve, che significava a sua volta l’intensificarsi del traffico, il disagio dei mezzi e quindi ritardi su ritardi su ritardi.. ma d’altronde Milano era bella anche per quello, no?
Via Torino era affollata come sempre, ma almeno non eravamo sotto Natale, periodo in cui la via si trasformava in una bolgia infernale.
A passo svelto raggiunsi la metro del Duomo, con in mente solo il pensiero di tornarmene al caldo del mio appartamento.
La fila ai tornelli era lunga: troppi turisti. Strisciai l’abbonamento sul sensore e finalmente eccomi dall’altra parte della barriera.
Benché avessi fretta e fossi parecchio stanco di starmene in giro, il mio
treno non era minimante dell’idea di arrivare.
Mi guardai attorno pigramente: la solita folla variegata fatta da impiegati appena usciti dagli uffici, universitari e stranieri.
Mi strinsi nel cappotto e mi strofinai le mani. Il primo treno arrivò, ma era per Bisceglie. Borbottai spazientito.
Una ragazza, in piedi a pochi centimetri di distanza, mi guardò incuriosita prima di salire.
Un gruppo di turisti giapponesi mi passò davanti schiamazzando, infischiandosene dell’avvertimento di stare al di qua della linea gialla.
Finalmente arrivò il mio treno: non era esageratamente pieno, riuscii perfino a sedermi. Il telefono vibrò nella mia tasca.
«Ma chi è che rompe il cazzo ora?» – Mormorai -. Il display dello smartphone indicava “mamma”.
«Pronto?»
«Dove sei?»
«Come dove sono? In metro e prende poco».
«Lo sai che c’è stata una sparatoria a Milano?»
«Ma’, Milano è grande».
«Lo so, ma stai attento. Sono preoccupata».
«Va bene mamma, ma le probabilità che io venga coinvolto in una sparatoria sono molto basse».
«Non si sa mai. Stai attento!»
«Certo, adesso torno a casa e mi chiudo dentro. Va bene?»
«Sì. Chiamami quando arrivi».
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Estratto #2 |
Percorsi quasi metà della linea rossa prima di dover scendere alla mia fermata.
Il quartiere di Bonola era in una delle zone periferiche di Milano, non aveva un’identità propria.
Non era il massimo per viverci, ma col tempo ci si faceva l’abitudine.
Il mio appartamento si trovava esattamente dietro la stazione della metro, in un condominio dall’aspetto triste e anonimo.
Lo avevamo scelto non perché in una buona posizione o perché ampio e soleggiato, come volevano propinarci quelli dell’agenzia, bensì perché costava poco e i topi non correvano tra i muri.
«Buonasera Lazzini».
Il portinaio mi squadrò da capo a piedi e biascicò qualcosa.
Non gli stavo simpatico, ma cercavo comunque di mantenere il minimo dei rapporti cordiali: un saluto alla mattina e alla sera, e uno extra quando passavo a ritirare la posta.
Andai all’ascensore e finalmente Lazzini sembrò risvegliarsi.
«Va che è rotto!» – Mi gridò con un mezzo sorriso stampato sul volto, che, ci avrei scommesso l’anima, era di soddisfazione.
Dovetti farmi due piani di scale a piedi; non ne potevo più -.
Quando feci per infilare la chiave nella porta, questa si aprì.
Spuntò Cesare, il mio coinquilino, in tenuta da sera.
«Ah Gabriele, sei tornato?»
«Eh, pare. Posso entrare?»
«Sì, certo. Io stavo uscendo».
«Mangi fuori?»
«Sì, ho un mezzo appuntamento».
«Va bene… ma a che ora torni?»
«Non so, dipende come vanno le cose. Sì, sì… non guardarmi così, prendo le chiavi».
«Bravo».
«Tu che farai?»
«Boh, non saprei. Mi sa che mi mangio qualcosa di veloce, magari un film, e poi… mi sono appena preso i fumetti!»
«Che nerd! Vabbè dai, allora tolgo il disturbo, non vorrei rovinare la serata a te e ai tuoi supereroi in calzamaglia!»
Mi lasciò fischiettando con un motivetto frivolo. Lo sentii ancora, due piani più in basso, quando gridò il nome del portinaio.
Ecco, forse, spiegato il motivo di tanto astio.
Chiusi definitivamente la porta tagliando fuori tutti i rumori della città.
L’appartamento aveva il pregio di essere silenzioso: una sorta di oasi tranquilla dopo tutto il trambusto della giornata.
Appoggiai la tracolla sul tavolino dell’ingresso e mi spostai in camera mia. Il letto era ancora sfatto dalla mattina: in un appartamento abitato da due maschi, difficile che qualcuno lo rifacesse.
Non avevo voglia di preparare qualcosa di complicato, me la cavai con un panino imbottito e una mezza birra dal frigo.
Mi stravaccai sul divano e accesi la tv: su Italia 1 davano un vecchio film con Gene Wilder. Si prospettava, insomma, un’ottima serata.
Più o meno a metà film un rumore attirò la mia attenzione.
Mi alzai sparpagliando un esercito di briciole sul pavimento e andai alla finestra.
L’appartamento si trovava al secondo piano, ma questo fatto non sembrava per nulla importare a Cane, il nostro gatto.
Mi guardò coi suoi occhioni verdi dall’altra parte del vetro; dopo essersela spassata tutto il giorno con qualche micia, il briccone aveva sicuramente fame.
Gli aprii la finestra e subito si fiondò dentro con la sua grazia felina.
Cominciò a strusciarsi sul mio braccio, facendo le fusa.
«Sì, sì. Aspetta un momento, arrivano le crocchette» – non attese nemmeno che gli riempissi interamente la ciotola -. «Contieniti Cane, non ti abbiamo educato così».
Cane viveva con noi da due anni; l’aveva trovato Cesare sotto una macchina tornando dall’università e aveva pensato bene di portarlo a casa. Il nome “Cane” era stata una sua scelta.
Diceva di volersi prendere gioco del significante e del significato, in modo tale che la realtà non potesse aderire al concetto. Tutto in quel gatto. Mah…
«Vabbè, bello, io torno a vedermi il film, se mi cerchi sono di là».
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